
L'8 e il 9 giugno appena passati si sono avute le votazioni per 5 referendum abrogativi. Cinque referendum che mettevano al centro temi cruciali come la precarizzazione del lavoro, la tutela dei lavoratori e il diritto alla cittadinanza.
Questi referendum, promossi da CGIL, +Europa e sostenuti dalle opposizioni, non hanno raggiunto il quorum del 50% + 1 necessario per rendere valido il voto: l'affluenza si è infatti fermata sotto al 30%. Finanche nelle regioni con più partecipazione - come Emilia Romagna e Toscana - nessuna provincia ha superato la fatidica soglia. La domanda che sorge naturale è: come mai?
Ad essere onesti un risultato positivo era un po' difficile da immaginare, considerati i precedenti, ma in questo caso il dato che suscita maggiore scalpore - e indignazione - è la percentuale di persone non votanti che ha raggiunto oltre il 70%. Un dato davvero troppo elevato per non rifletterci su.
C'è chi, erroneamente, crede che, per il fatto che ci siano stati così tanti astenuti dal voto, abbia quindi vinto il “no” ma questo è un errore di giudizio e in diritto non funziona così: se avesse vinto il “no”, infatti, considerando solo il 30% dei votanti effettivi avremmo avuto una percentuale maggiore di “no” anziché di “sì” mentre invece, più del 90% (di quel 30%) ha votato “sì” - circa 14 milioni di italiani - a fronte di un esiguo numero che ha votato no. Il problema, quindi, non è se ha vinto il “no” o il “sì”, ma il fatto che "solo" 14 milioni di persone hanno votato su più di 60 milioni di italiani. Se poi da quei 14 milioni sottraiamo il voto degli italiani all'estero ecco allora che la soglia dei votanti effettivi è ancora minore!
È questo il dato scandaloso!
Il vero vincitore di questi 5 referendum quindi, non è né il “sì” né il “no”. È l'astensionismo!
E con esso si potrebbe aggiungere che ha vinto l'apatia, l'indifferenza verso il proprio futuro, l'egoismo personale del "ma a me che importa, tanto io il lavoro ce l'ho" e le varie giustificazioni personali che vanno dal "ma io stavo lavorando" al "io ero al mare" e così via. Lasciando da parte le motivazioni serie di salute che non hanno consentito ad alcune persone di votare e coloro che per varie ragioni non potevano davvero recarsi ai seggi, le altre sono tutte scuse.
Comode, ricorrenti ma ipocrite.
Ipocrite perché ognuno di noi ha impegni, vite piene e problemi diversi. Tuttavia, la democrazia, quella che tutti noi diciamo di volere e difendere, si nutre anche di responsabilità e di doveri. Uno di questi - e ricordarlo non nuoce - è proprio quello sancito dall'art.48 della nostra Costituzione, il quale considera il voto come un diritto, sì, ma anche come un dovere civico. Se non troviamo 1 ora per votare, stiamo calpestando il nostro dovere (sancito dalla Costituzione) che rende possibile la convivenza civile.
Mi verrebbe da aggiungere che fanno bene, allora, altri Stati europei - come il Belgio, laddove votare è obbligatorio e se non si vota si può incorrere in sanzioni e multe che vanno da 40 a 80 euro, per la prima infrazione, fino a 200 euro per le successive - ma anche extra europei come Brasile e Argentina dove oltre a punire i non votanti con sanzioni pecuniarie, sono, al contempo, a loro limitati vari diritti tra i quali: la partecipazione ai concorsi pubblici, la possibilità di chiedere e ricevere documenti come i passaporti e la richiesta di assistenza statale.
E invece com'è messa la situazione in Italia? Nel nostro Paese se non si vota non si va incontro a sanzioni legali o amministrative per cui se questo diritto e dovere civico non è esercitato non ci saranno conseguenze pratiche. E questo potrebbe spiegare in parte il largo astensionismo.
Al di là di ciò, come mai, però, noi italiani siamo così pigri e indifferenti - oserei dire quasi menefreghisti - nei confronti della vita pubblica del nostro stesso Paese? Come mai ci alziamo alle 6 del mattino per metterci in fila e acquistare l'ultimo modello di smartphone o ci mettiamo in coda per ore pur di avere uno di quei pupazzi insignificanti (che stanno andando tanto di moda attualmente) con il nome di Labubu? Perché ci scandalizziamo, facciamo rumore e ci indigniamo per la squadra di calcio favorita che esce dalla Champions (o peggio ancora non si qualifica ai mondiali) e non ci alziamo dal divano per interessarci alla vita del nostro Paese?
Eppure, nonostante ciò, guardiamo sempre con stima e ammirazione i nostri vicini francesi - che tanto odiamo per la loro aria di superiorità e puzza sotto al naso - ma che invidiamo quando fanno scioperi di massa e manifestazioni bloccando intere città francesi! Gente che rinuncia a giorni di stipendio, si espone al freddo, alle tensioni e agli scontri pur di far sentire la loro voce al governo! Eppure i francesi lo fanno, con orgoglio e con coraggio! Lo fanno per difendere i loro diritti e per ottenere cambiamenti concreti. La loro è una partecipazione attiva (certo, a volte anche troppo) ma di sicuro è vissuta come impegno civico e non con indifferenza!
E noi invece?
Noi l’unico sforzo degno di nota che facciamo è quello di lamentarci sui social e nei bar con i nostri amici o al lavoro con i nostri colleghi, però quando arriva il momento di agire, di votare, di fare sentire DAVVERO la nostra voce, preferiamo il silenzio, la fuga e l'astensionismo. Ci nascondiamo con la speranza che qualcuno vada al posto nostro a votare e che quel risultato,che tanto desideriamo, avvenga per mano di qualcun altro.
In psicologia sociale questo fenomeno è noto come "Effetto Spettatore" ed è strettamente legato alla diffusione della responsabilità. Per riassumere (senza addentrarmi troppo nella materia) quando si verifica un evento in presenza di più persone, ogni singolo individuo tende a sentirsi meno responsabile di agire perché la responsabilità non ricade interamente su di lui ma è "divisa" tra tutti. Ecco quindi che ognuno presume che l'altro interverrà o farà qualcosa ma alla fine nessuno - o, come nel caso del referendum, solo una minoranza - fa qualcosa. Le ragioni per cui ciò avviene? Sicuramente la percezione della responsabilità "diluita" tra più persone ma, in aggiunta a ciò, c'è anche l'ignoranza (madre di tutti, o quasi, i mali di questo mondo), la paura del giudizio e l'apprensione per la valutazione altrui: si teme di essere giudicati dagli altri se si interviene.
Oltre alla psicologia però, la quale sicuramente dà una spiegazione, seppure parziale, dell'elevato numero di astenuti ai recenti referendum, c'è a mio avviso un'altra verità - più semplice ma non per questo meno probabile - ed è che partecipare alla democrazia non fa “hype”, non genera like e non fa tendenza. Nessuno ti mette una medaglia per aver votato così come nessun algoritmo ti premia per esserti informato, per aver riflettuto o per aver fatto una scelta consapevole.
Eppure è proprio lì, in quel gesto silenzioso e anonimo del voto, che si gioca la partita più importante: quella del potere, dei diritti e della direzione che si vuole dare alla nostra società. Partecipare alla democrazia può non dare una gratificazione immediata ma di sicuro semina un futuro possibile. Il voto è infatti come un investimento invisibile al momento ma dà i suoi frutti in seguito.
E bada, caro lettore, che seppure siamo immersi in una cultura che dà maggiore peso alla visibilità, dove tutto deve essere spettacolare per essere ritenuto valido, la politica vera – quella che tocca le leggi, le tutele, le libertà – non vive sotto i riflettori. Vive nel tempo, nella continuità e nella coscienza collettiva. Parteciparvi a volte può essere faticoso, noioso o persino scomodo ma è anche l’unica cosa che può davvero cambiare le regole del gioco.
Perché se non lo fai tu, qualcun altro deciderà al posto tuo. E non sempre per il tuo bene.
Pensaci la prossima volta che, di fronte alla possibilità di votare per qualcosa, deciderai di astenerti.
Ed infine ricorda: è sempre meglio votare per il “no” che non votare affatto!